Della quantità industriale dei libri che ho letto e continuo a leggere non mi resta nulla...ho sempre desiderato avere una di quelle memorie che trattengono le citazioni, ma non ce l'ho e mi scuso, a volte dicendo: "Se ricordassi anche solo un decimo delle mie letture...avrei una cultura" Ma oggi, con le gambe gonfie per la primavera e il non camminare e con il proposito di andare alla posta a piedi (4,5 km. X 2) con una sigaretta in mano mi sono letta un capitoletto, adoro i suoi capitoletti, dell'ultimo libro di Christian Bobin che considero un mio maestro di scrittura, me lo ha regalato Erika, la cantante musicista del bel concerto di 10 giorni fa, non sapevo che anche lei amasse questo autore indefinibile, più poeta che scrive in prosa che prosatore e lì, in questa mattina che assomiglia a quelle che lui racconta: un caffelatte, la sigaretta, gli uccelli che cantano, un pò di lentezza....ho trovato la risposta al mio perdere le parole non appena ho chiuso l'ultimo libro...vi trascrivo un brano da "Mille candele danzanti"
Lui parla dei libri riferendosi in particolare a quando ha letto "Il dottor Zivago"...io ho un ricordo legato a questo libro, ricordo mia mamma seduta sul letto, era notte fonda, mi ero alzata e, vedendo la luce nella sua camera entrai, stava seduta sotto le coperte e piangeva, le chiesi il perchè e lei mi disse: "Non si rivedranno più, c'è tanta neve, lui scrive una lettera...."la lasciai sola nelle sue pianure russe e dopo qualche tempo lessi anch'io quel libro magnifico e quella lettera nella casa gelata...Bobin dice:
All'uscita da un grande libro conosci sempre quel sottile malessere, quel periodo di fastidio. Come se il libro amato potesse leggerti dentro. Come se il libro amato ti desse un viso trasparente, indecente: non si va per la strada con un viso così nudo, con quel viso denudato di felicità. Bisogna aspettare un pò. Bisogna aspettare che la polvere delle parole si sparpagli nel giorno. Delle tue letture non conservi niente, oppure una frase appena. Sei come un bambino a cui si mostra un castello e che non vede altro che un particolare, un'erba tra due pietre, come se il castello traesse la sua vera potenza dal tremolio di un'erba matta. I libri amati si mescolano col pane che mangi. Conoscono la stessa sorte dei visi intravisti, delle giornate limpide d'autunno e di ogni bellezza della vita: ignorano la porta della coscienza, scivolano dentro di te attraverso la finestra del sogno e si intruffolano fino ad una stanza in cui non vai mai, la più profonda, la più ritirata. Ore e ore di lettura per questa leggera infarinatura dell'anima, per questa infima variazione dell'invisibile dentro di te, nella tua voce, nei tuoi occhi, nel tuo modo di muoverti e di comportarti.
A cosa serve leggere. A niente o quasi. E' come amare, come suonare. E' come pregare. I libri sono dei rosari d' inchiostro nero, ciascun grano dei quali ti scorre tra le dita, parola dopo parola. E cos'è esattamente pregare. E' fare silenzio. E' allontanarsi da sé nel silenzio. Forse è impossibile. Forse non sappiamo pregare come bisogna: sempre troppo rumore sulle nostre labbra, sempre troppe cose nei nostri cuori. Nelle chiese non prega nessuno, tranne le candele. Si dissanguano. Consumano tutto il loro stoppino. Non trattengono nulla per sé, danno ciò che sono e questo dono si trasforma in luce. La più bella immagine della preghiera, la più chiara immagine della lettura, sì, sarebbe quella: il consumarsi lento di una candela nella chiesa fredda. Cosa ti resta ora del grande libro di Pasternak. Un volto. Il volto di un uomo separato dalla sua amante da migliaia di inverni. Quel volto è nell'ombra. L'uomo è seduto a un tavolo, in una casa di legno, sperduta nella foresta. Scrive una lettera. La lettera è lunga, interminabile. L'inchiostro annerisce diverse pagine. E' tutto. Dimenticati i nomi, gli avvenimenti. Tutto cancellato. Tutto gelato sotto gli stagni del libro. Resta ancora la febbre di quella lettura, quella bella debolezza, così lunga ad andarsene. E' la stessa che ritrovi dopo l'amore o verso la fine di una passeggiata. Si direbbe una fatica, ma una fatica di un genere particolare, una fatica che riposa. Davanti ai libri, alla natura o all'amore sei come a vent'anni: al principio del mondo e di te stesso. Non ti sposti. Guardi i treni partire uno a uno. Guardi chi li prende, gli uomini d'affari, gli uomini lividi. Parlano aspettando il loro treno. Parlano di cose senza importanza, di faccende di soldi. Sei molto vicino a loro, ma non ne senti le voci: un rumore le copre, lo scricchiolio di una penna sulla carta. Un rumore incessante, come se chi scriveva si fosse votato ad un compito infinito. Un rumore leggero, come quello della neve su una casetta di legno in Russia, terra promessa.
Beh come si fa a scrivere così bene?! Mi piacciono moltissimo le sue frasi di tre parole. Adoro il suo minimalismo. Grazie ancora Christian nato nel '51 come me, ti scoprii con il libro su Francesco dalla copertina orribile, che non invita ad acquistarlo, "Francesco, l'inifinitamente piccolo" per colpa di quel libro feci 200 km. in più in macchina (c'era un ingorgo e io leggevo guidando due metri alla volta e il libro mi prese così tanto che non vidi uno svincolo e...) non ricordo nulla di quel libro solo che era poesia pura, era Francesco più di qualsiasi saggio...poi non ti ho più lasciato e quando scovo un tuo libbretto, in italiano ti hanno tradotto troppo poco, è una gioia... grazie Erika per aver scovato per me questo che mi mancava...è tornare a casa...grazie Christian per avermi pacificato per la mia inesistente memoria...
Coperta di polvere di parole vado alla posta, a piedi, per le mie gambe gonfie e per la mia anima intasata GRAZIE!
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