carissimi, la prima cosa che ho letto sta mattina è questa bellissima poesia di Davide Maria Turoldo che mi è stata inviata...ve la invio...è speciale un bacio
SALMODIA DELLA POVERA GENTE
(A mio fratello Lino)
Più non conosco la fame
più non conosco la tavola vuota
il piatto vuoto di orzo e cacio
il focolare senza foco.
Nessuno dei grandi ciambellani
nessuno dei molti vessilliferi
centurioni d’honore intorno all’episcopo
nella dolce sagra del corpusdomini
ha mai sofferto la fame
o ha dormito su un letto di strame,
umido tronco coperto di sacco.
E la pioggia batteva sul tetto
batteva con migliaia di mani
batteva con dita di vetro
e con occhi di vetro
spiava dalle crepe del vecchio solaio.
Nelle lunghe notti d’inverno
il vento lacerava i vetri di cartone
alle finestre come un bandito.
E il freddo ti gonfiava le mani
uguali a rose rosse di sangue.
Ma quelle di babbo e mamma
ormai erano pianure
solcate da fiumi neri di fango,
da carriaggi impraticabili
alle nostre dita di fanciulli:
ancora le vedo aperte e vuote
sulle ginocchia la sera
e noi ci perdevamo in esse
fiori in cortili deserti.
Nessuno dei figli dei grandi capitani
nessuna delle molte eccellenze
in schiera a celebrare perenni olimpiadi
o in affanno per avventurose crociere
ha mai sentito gli aghi aguzzi del freddo
sulla carne eburnea sotto i dilicati pastrani
o ha visto per lunghi inverni
la desolazione assediare la casa.
Più non sento il valore di quanto mi manca
il piacere di quanto possiedo
l’amore di tutto ciò che m’è stato donato.
Allora l’acqua era così buona
la poca polenta riempiva la casa di profumo
il latte, il latte succhiavamo a gocce
quasi fosse miele…
Ora la mamma mia non ha sorprese
nemmeno il pane ha più un sapore;
o fratello, non ho la gioia ancora
di un vestito vostro, da mamma
rimesso a nuovo per me nella notte
avanti la sagra di S. Giuseppe;
più l’allegria non ho delle prime
scarpe comprate a centesimi.
Nessuno de’ cristiani degli alti palazzi
nessuno dei molti benefattori
ha vissuto le attese di un dono
che ci è stato negato per tutta l’infanzia,
l’incantesimo di un solo giocattolo
rapito coi nostri occhi alle vetrine.
Ma nessuno mi cancelli dalla memoria
le mie intramontabili vigilie a natale
i miei lunghi studi senza aiuti e compensi.
Vi ho lasciati soli a soffrire, fratello.
Iddio dammi i sensi che avevo allora
e perdona l’abitudine del cuore
ai troppi avvenimenti,
perdona questi occhi ciechi…
Signore, aiutaci a guarire dai nostri possessi.
(A mio fratello Lino)
Più non conosco la fame
più non conosco la tavola vuota
il piatto vuoto di orzo e cacio
il focolare senza foco.
Nessuno dei grandi ciambellani
nessuno dei molti vessilliferi
centurioni d’honore intorno all’episcopo
nella dolce sagra del corpusdomini
ha mai sofferto la fame
o ha dormito su un letto di strame,
umido tronco coperto di sacco.
E la pioggia batteva sul tetto
batteva con migliaia di mani
batteva con dita di vetro
e con occhi di vetro
spiava dalle crepe del vecchio solaio.
Nelle lunghe notti d’inverno
il vento lacerava i vetri di cartone
alle finestre come un bandito.
E il freddo ti gonfiava le mani
uguali a rose rosse di sangue.
Ma quelle di babbo e mamma
ormai erano pianure
solcate da fiumi neri di fango,
da carriaggi impraticabili
alle nostre dita di fanciulli:
ancora le vedo aperte e vuote
sulle ginocchia la sera
e noi ci perdevamo in esse
fiori in cortili deserti.
Nessuno dei figli dei grandi capitani
nessuna delle molte eccellenze
in schiera a celebrare perenni olimpiadi
o in affanno per avventurose crociere
ha mai sentito gli aghi aguzzi del freddo
sulla carne eburnea sotto i dilicati pastrani
o ha visto per lunghi inverni
la desolazione assediare la casa.
Più non sento il valore di quanto mi manca
il piacere di quanto possiedo
l’amore di tutto ciò che m’è stato donato.
Allora l’acqua era così buona
la poca polenta riempiva la casa di profumo
il latte, il latte succhiavamo a gocce
quasi fosse miele…
Ora la mamma mia non ha sorprese
nemmeno il pane ha più un sapore;
o fratello, non ho la gioia ancora
di un vestito vostro, da mamma
rimesso a nuovo per me nella notte
avanti la sagra di S. Giuseppe;
più l’allegria non ho delle prime
scarpe comprate a centesimi.
Nessuno de’ cristiani degli alti palazzi
nessuno dei molti benefattori
ha vissuto le attese di un dono
che ci è stato negato per tutta l’infanzia,
l’incantesimo di un solo giocattolo
rapito coi nostri occhi alle vetrine.
Ma nessuno mi cancelli dalla memoria
le mie intramontabili vigilie a natale
i miei lunghi studi senza aiuti e compensi.
Vi ho lasciati soli a soffrire, fratello.
Iddio dammi i sensi che avevo allora
e perdona l’abitudine del cuore
ai troppi avvenimenti,
perdona questi occhi ciechi…
Signore, aiutaci a guarire dai nostri possessi.
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